Tra Biodiritto e Neoumanesimo

Tra Biodiritto e Neoumanesimo

Tutela del valore della dignità umana e diritto all’autodeterminazione, trovano il proprio fondamento giuridico nell’impianto costituzionale che, come è noto, accoglie e delinea un nuovo ordinamento, personalista1 e solidarista2, oltre che in fonti internazionali3. Partendo, infatti, dal riconoscimento dei diritti inviolabilidell’uomo (art. 2 Cost.), la Costituzione repubblicana del ’48 supera la tradizio- nale impostazione che poneva lo Stato al centro dell’ordinamento. In tale quadro di riferimento è così riconosciuto il primato della persona rispetto allo stesso Stato. In tale contesto, la persona umana è considerata fine e non mezzo di qualunque attività, ed è più specificamente, «fine del sistema delle libertà». L’art. 2 Cost., rappresenta pertanto, come rilevato dalla dottrina civilistica, «la clausola generale di tutela della persona».

Il diritto all’autodeterminazione quale espressione in cui si riverbera la stessa dignità umana, trova riscontro e tutela nell’art. 13 Cost., che proclama l’inviolabilità della libertà personale. Secondo l’art. 32 Cost., la salute costituisce un diritto fondamentale dell’indivi-duo (oltre che un interesse generale della collettività). Si tratta dell’unico caso incui nel testo costituzionale un diritto è definito “fondamentale”. La norma de quaprosegue affermando che «Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» e precisando che, in ogni caso, la legge non possa violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana, viene a realizzare una riserva di legge rafforzata. In virtù di tale norma il trattamento puòessere imposto dalla legge (nei limiti del rispetto della persona umana), ma non già per la tutela dell’interesse individuale (che è rimesso all’autodeterminazione) bensì per quella del pubblico interesse.

In tale quadro dunque il consenso della persona costituisce la stessa ragione giustificatrice del trattamento medico-sanitario, sia a fini penali6 che civili.

Non è dunque sufficiente il mero dovere di curare da parte del medico, in quanto occorre il consenso del soggetto destinatario del trattamento sanitario a riceverlo.

All’esercente la professione medica lo Stato ha affidato il delicato compito ditutelare concretamente un valore costituzionalmente protetto (la salute dell’in–dividuo); tuttavia il medico può intervenire solo se c’è il consenso del soggetto.

Già dall’art. 32 Cost., discende il diritto di chiunque ad una adeguata informazio- ne al fine di fornire il proprio consapevole consenso alle prestazioni sanitarie, e, cor- relativamente, uno specifico obbligo per il medico di informare. Il consenso, d’altra parte, come si è visto, serve a legittimare lo stesso intervento sanitario. Il medico ha dunque l’obbligo di informare il paziente sia in ordine alla diagnosi effettuata che alla terapia che deve essere praticata. Più specificamente l’informazione che il medi- co è tenuto a dare al soggetto interessato riguarda, la natura della patologia diagnosticata, il trattamento terapeutico per la cura della stessa e i rischi che lo stesso presenta; inoltre, il medico deve, in una valutazione comparativa, illustrare alla personaanche gli eventuali interventi terapeutici alternativi (e i rischi connessi) oltre che leconseguenze cui andrebbe incontro in assenza assoluta di terapie.

Il consenso libero e consapevole trova naturalmente riscontro anche in fontiinternazionali (come l’art. 5 della cosiddetta Convenzione di Oviedo del 4/4/1997 (Convenzione sui Diritti dell’uomo e sulla Biomedicina), ratificata dall’Italia con la legge 28 marzo 2001, n. 145) e sovranazionali, come la stessa Carta dei dirittifondamentali dell’Unione europea (art. 3, comma 2, lett. a) che, ai sensi dell’art. 6,comma 1, del Trattato UE ha lo stesso valore giuridico dei trattati.

È importante rilevare come il diritto di autodeterminazione, fondato sui principi di cui agli articoli 2, 13 e 32 Cost., comporti quindi non solo la esistenza di un diritto(in positivo) di ciascuno essere curato, ma anche quella di un diritto, a contenutonegativo, di rifiutare eventualmente le terapie proposte o di decidere consapevol- mente di interromperle, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale.

A tal proposito va rilevato che le scelte di fine vita, nell’interpretazione della Corte europea per i diritti dell’uomo, costituiscono espressione della libertà dell’individuo, e pertanto attengono al rispetto della vita privata ai sensi dell’art. 8, CEDU.

In piena conformità con quanto stabilito dalle norme costituzionali si pongono poi varie disposizioni di legge ordinaria, come l’art. 33 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (norma che vieta la possibilitàdi accertamenti e di trattamenti sanitari in mancanza del consenso del soggetto, ameno che non ricorra uno stato di necessità ex art. 54 c.p.); l’art. 3 della legge 21ottobre 2005, n. 219, Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati; l’art. 1 della legge 13 maggio 1978, n. 180, Accertamen- ti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori; l’ art. 6, della legge 19 febbraio 2004,n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita). L’informazionecome specifico obbligo del medico inoltre è disciplinato dallo stesso Codice dideontologia medica (art. 35).

Ma è con la recente legge 22 dicembre n. 219, Norme in materia di consenso in- formato e di disposizioni anticipate di trattamento che è stata introdotta un’organi- ca disciplina del consenso informato.

La finalità della legge 219 del 2017 è chiaramente indicata all’art. 1: la tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona. Quindi, in tale ottica, nessun trattamento sanitario può essere iniziato o prosegui- to se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge.

Al comma 3 dell’articolo 1, poi è specificato il contenuto delle informazioni che la persona ha diritto di ricevere dal medico e cioè le proprie condizioni di salute che devono essergli rappresentate in modo completo, aggiornato e comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti dia- gnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternati- ve e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accer- tamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi. Quindi è espressamente menzionata la possibilità di rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero di indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole, con la precisazione che il rifiuto o la rinuncia alle informazioni e l’eventuale indicazione di un incaricato devono essere registrati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.

Al comma 4 poi è stabilito il modo di acquisizione del consenso informato, con «gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente». Quanto alla forma essaè scritta, consistente in videoregistrazioni. Per la persona con disabilità, il consenso può essere acquisito attraverso dispositivi che le consentano di comunicare. In ogni caso il consenso informato, in qualunque forma espresso, è inserito nella car- tella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.

È poi ribadito (al comma 5) che ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiu– tare, in tutto o in parte, con le stesse forme previste per l’acquisizione del consenso, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. In ogni caso la persona conser- va il diritto di revocare in qualsiasi momento, con le stesse forme, il consenso pre- stato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento.

Infine la importante precisazione che, ai fini della legge, sono considerati trat- tamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto som- ministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici. Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e pro- muove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l’accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.

Grazie a disposizioni come quelle contenute nella Costituzione anche il nostro ordinamento ha potuto compiere quel progressivo superamento della concezione tradizionale dell’attività medica che vedeva il paziente in posizione subalterna, assoggettato nel suo completo affidarsi con atteggiamento fideistico. Tale concezione, sviluppatasi nella cultura occidentale influenzata dal giuramento di Ippo- crate e poi dal Cristianesimo, ha visto e considerato la professione sanitaria come protesa al bene del paziente in uno slancio di gratuità e beneficienza che comportava l’obbligo di curare i pazienti e di non provocare agli stessi danni ed ingiustizie(primum non nocere).

Una visione paternalistica (anche se non si può certo affermare che tale paterna–lismo sia stato nei secoli di storia della medicina sempre e comunque dispotico)che nel nostro ordinamento, tra l’altro, aveva coerentemente prodotto risultaticoncreti sul piano giurisprudenziale: limitare la responsabilità (anche) del medicocome in genere del professionista, in quella sorta di privilegio che traeva origine dalla distinzione, peraltro non presente nel codice civile, tra obbligazione di mezzi e obbligazione di risultato.

In virtù di tale tradizionale modo di approcciarsi al problema, fondato anche sulla ovvia constatazione della generale ignoranza del paziente in campo tecnico-sanitario e su una certa deferenza verso l’attività medica, le relazioni tra medico e paziente sostanzialmente per il primo si risolvevano in una totale riserva di com- petenza in ordine alle scelte da compiersi e, per il secondo, nella ricordata sotto- missione incondizionata alle decisioni prese dal professionista.

La situazione muta profondamente quando è avvertita, nell’immediato secon- do dopoguerra – dopo i tragici eventi dei crimini e abusi compiuti dai medici nazisti (con le abominevoli atrocità delle sperimentazioni fatte su cavie umane nei campi di concentramento), e il conseguente processo di Norimberga – la necessità di fissare, compilando appunto il “Codice di Norimberga”, i limiti generali dell’attività e della sperimentazione medica al fine precipuo della salvaguardia della per- sona umana, della sua dignità e dei suoi diritti inviolabili. In tale contesto, viene preliminarmente affermata l’imprescindibilità del consenso dell’interessato a qualunque intervento o prestazione sanitaria sul suo corpo.

In ogni caso vi fu l’avvio di un iter giuridico e politico mediante il quale si è determinato il ribaltamento della logica tradizionale ed è stata riconosciuta la necessità di realizzare un rapporto paritario tra i soggetti protagonisti, cioè il medico e la persona da sottoporre a interventi sanitari. In altri termini, pur non essendo in alcun modo messo in discussione il ruolo “tecnico-scientifico” e professionale del medico, la sua attività peraltro deve conciliarsi con il diritto all’ autodeterminazio- ne del paziente. Di qui, la nascita di nuove relazioni, improntate alla «cooperazione terapeutica» fra medico e malato, in vista della realizzazione di un intento comune (la cura del malato).

Il paziente-persona, di cui tutti gli ordinamenti degli stati democratici ormai riconoscono e garantiscono i diritti inviolabili, deve poter liberamente e consape- volmente accettare, scegliere o anche rifiutare i trattamenti sanitari e, in ogni caso, non più supinamente subirli.

Pertanto da una relazione medico-paziente di tipo paternalistico e fideistico si è passati a un rapporto di fiducia tra medico e persona da curare, il cui presupposto indefettibile è costituito dalla corretta informazione che il primo deve fornire alla seconda, nel quale rapporto si coniugano «l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico», come recita l’art. 1, comma 2 della l. 219, del 2017.

 

Avv. Michele Saracino

(Cultore Diritto civile e Biodiritto, fac. Giurisprudenza- Uniba Taranto)

Il Presidente del Tribunale di Taranto incontra la Camera Civile Avvocati Taranto

Il Presidente del Tribunale di Taranto incontra la Camera Civile Avvocati Taranto

Illustre Presidente, come già segnalato all’Ordine, martedì 26 ottobre u.s. i rappresentanti del Direttivo della Camera Civile, in persona del Segretario avv. Stefania Cantoro del Tesoriere avv. Angelo Sebastio e del sottoscritto, avv. Francesco De Palma, quale Presidente, hanno avuto la opportunità di essere ricevuti dal Presidente del Tribunale, Signora Rosa Anna Depalo.
L’incontro, connotato da reciproca cordialità, ha preliminarmente costituito l’occasione per ribadire alla Signora Presidente sia le congratulazioni per il prestigioso incarico a lei conferito, che il benvenuto per il suo successivo insediamento presso la sede di questo Ufficio Giudiziario.
Da parte del Direttivo della Camera Civile si è quindi ritenuto di prospettare le problematiche che continuano ad affliggere l’ Avvocatura tarantina e le comprensibili aspettative di risoluzione delle stesse.
In particolare:
E’ stata segnalata, in primo luogo, la problematica inerente all’accesso degli Avvocati al Tribunale, ed alle altre sedi degli uffici giudiziari, con richiesta di disporre che tale accesso non sia più soggetto a specifiche giustificazioni e/o verifiche di alcun genere, e che sia sufficiente la sola dimostrazione (mediante esibizione della tessera di riconoscimento rilasciata dall’Ordine) della iscrizione all’ Albo Professionale;
– E’ stata altresì auspicata la costante ed ampia possibilità di accesso, da parte degli Avvocati, a tutte le cancellerie, con facoltà di relazionarsi “in presenza” con il personale giudiziario e, soprattutto, è stata evidenziata la necessità di immediato accesso, pur in mancanza di preventiva prenotazione, in caso di comprovata urgenza;
– E’ stata rappresentata la esigenza di assicurare la regolare ripresa della trattazione delle cause e dei procedimenti (sia per quel che riguarda il Tribunale che per quel che riguarda il Giudice di Pace) senza ulteriori parziali (ma numericamente consistenti) differimenti di ufficio (che, soprattutto per quel che riguarda le cause innanzi all’Ufficio del Giudice di Pace e per quel che riguarda i procedimenti presso terzi, vengono troppo frequentemente disposti);
E’ stata segnalata, inoltre, la esigenza di procedere, da parte della Presidenza, ad una rigorosa ed approfondita individuazione, con conseguente risoluzione del problema, delle cause e dei motivi che determinano i purtroppo ricorrenti disservizi (ad esempio: ritardi nella apertura dei depositi telematici degli atti processuali oggetto di deposito) e le irregolarità e/o omissioni delle comunicazioni di cancelleria (che sono causa di successivi inevitabili rinvii delle cause e dei procedimenti per evitare nullità processuali).
Per completezza si è quindi ritenuto doveroso far espressamente presente alla Signora Presidente che la quasi totalità delle norme attualmente in vigore appaiono eccessivamente limitative e che, se si tiene conto del fatto che in tutti gli altri settori della vita sociale e del mondo del lavoro (ed anche dello spettacolo e degli eventi sportivi) le limitazioni a carico dei cittadini e dei lavoratori sono state pressochè del tutto soppresse, ovvero estremamente contenute, non è dato comprendere perché, per quel che riguarda la sede giudiziaria del Tribunale e del Giudice di Pace di Taranto, debba protrarsi una situazione che non ha più ragion di essere e che costituisce una ingiustificata penalizzazione per l’Avvocatura.
In proposito si è fatto richiamo alle situazioni generali dei Tribunali di Brindisi e Lecce, laddove le criticità vengono avvertite in maniera estremamente più attenuata.
Tali considerazioni, per quanto contenute a titolo esemplificativo nelle suddette criticità, sono state oggetto di attenzione da parte della Signora Presidente che, in proposito, ha però fatto presente che la persistenza dello stato di emergenza e la carenza di personale giudiziario che caratterizza l’organico del Tribunale di Taranto rendono, a suo avviso, inevitabile il sostanziale protrarsi delle norme e regole che disciplinano in loco le attività giudiziarie.
 In sintesi, l’esito dell’incontro con la Signora Presidente, cui si è comunque grati per aver dato l’opportunità alla Camera Civile di manifestare le proprie considerazioni in merito alle problematiche che affliggono la realtà giudiziaria tarantina, induce a ritenere che, ancora dell’Avvocatura jonica resteranno, almeno sino a quando non cesserà lo stato di emergenza, insoddisfatte una volta, le esigenze
La presente viene doverosamente inoltrata al Consiglio dell’Ordine e posta all’attenzione del suo Presidente essendo certi che le problematiche sopra sinteticamente delineate sono ben note alle Istituzioni Forensi e con la aspettativa che queste valutino, per quanto di loro competenza, le opportune iniziative volte a vedere assicurare alla Avvocatura quanto meno un miglioramento delle condizioni generali di espletamento della propria attività.
Il Presidente
Avv. Francesco DE PALMA
UNCC – PNRR e riforma del processo civile

UNCC – PNRR e riforma del processo civile

In data odierna l’Unione Nazionale delle Camere Civili è stata invitata insieme all’Unione delle Camere Penali dal Commissario Europeo per la Giustizia.
 
I temi della discussione, oltre PNRR e riforma del processo civile sono stati l’indipendenza e qualità dei giudici e digitalizzazione.
UNCC ha evidenziato come l’unico modo per restituire alla giustizia efficienza è aumentare il numero dei giudici, avere una magistratura indipendente, e riportare in Tribunale i Giudici con incarichi esterni.
 
UNCC ha ribadito che il progetto di riforma ridurrà la equità senza aumentare la efficienza
La responsabilità civile per danni cagionati da cose in custodia

La responsabilità civile per danni cagionati da cose in custodia

Il caso

Una signora (C.M.P.) adiva il Tribunale di Roma al fine di ottenere la condanna al risarcimento dei danni cagionati da una chiazza di sapone colata sul pavimento di un supermercato, che le causò una rovinosa caduta da cui riportò la rottura di un femore, convenendo in giudizio il titolare del grande magazzino interessato (S. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore Dott. G.D.). La pretesa vantata veniva rigettata con sentenza del 17 giugno 2002; la soccombente, dunque, impugnava suddetta pronuncia dinanzi alla Corte d’Appello di Roma. Vedutasi, tuttavia, respingere il gravame in data 1° aprile 2005, C.M.P. proponeva ricorso per cassazione; resisteva con controricorso S. s.r.l.

I motivi di ricorso

In esito ad un’attenta lettura della sentenza in commento, è possibile individuare tre distinte censure che la C.M.P. ha mosso al provvedimento giurisdizionale oggetto di ricorso. In particolare:

  • Con il primo motivo, l’impugnante ha dedotto l’insufficienza della motivazione resa dai giudici della Corte territoriale rispetto al motivo di appello volto a far valere la responsabilità della controparte ex 2043 c.c. (Risarcimento per fatto illecito), desumibile – secondo la ricorrente stessa – in ragione della mancata adozione di cautele che segnalassero la presenza di un pericolo sul pavimento del supermercato (ossia, la chiazza di sapone), idonea a connotare in termini di colpa la condotta del titolare del grande magazzino.
  • Con il secondo motivo, l’impugnante ha denunciato la violazione dell’ 2051 c.c. (Danno cagionato da cosa in custodia), poiché la Corte d’Appello ha assolto il titolare del supermercato sull’assunto che la parte attrice avesse l’onere di provare – oltre al nesso di causalità tra la res in custodia ed il danno subito – anche la concreta sussistenza di una “insidia-trabocchetto”, il che, secondo la ricorrente medesima, non sarebbe giuridicamente necessario, tanto più avendo riguardo al fatto che la diligenza ordinariamente richiesta alla clientela di un grande magazzino consisterebbe in quella media di cui ex art. 1176 c.c. (Diligenza nell’adempimento).
  • Con l’ultimo motivo, l’impugnante ha lamentato l’insufficiente motivazione resa dai giudici della Corte territoriale rispetto al motivo di appello volto a far valere la responsabilità della controparte ex art 2049 c.c. (Responsabilità dei padroni e dei committenti), dal momento che – secondo la ricorrente stessa e contrariamente a quanto espresso dai giudici del gravame – la presenza del sapone sul pavimento del supermercato non esimerebbe il titolare di quest’ultimo dal rispondere per carenze nella manutenzione della struttura, nonostante la macchia liquida si fosse da poco originata.

Preso atto di tali doglianze, la Suprema Corte ha circoscritto il proprio esame alle critiche ascrivibili al secondo motivo di ricorso, le quali presenterebbero un “rilievo potenzialmente assorbente” degli altri profili di censura, data la condivisibile sussunzione della fattispecie de qua entro l’ambito di applicazione dell’art. 2051 c.c.

Al fine di comprendere la portata della decisione del Giudice di Legittimità che di seguito si andrà a declinare – nonché dei connessi principi di diritto dallo stesso enunciati nell’espletamento della propria funzione nomofilattica – pare preliminarmente necessario fornire un sintetico inquadramento dell’art. 2051 c.c., il quale disciplina un regime speciale di responsabilità civile per fatto proprio, consistente nella responsabilità derivante da danni cagionati da cose in custodia. Nello specifico, la disposizione in esame (composta da un unico comma) prescrive che: “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”.  Dal tenore letterale di tale norma, dunque, è possibile dedurre che gli elementi costitutivi della fattispecie giuridica in considerazione siano cinque, ossia:

  • La cosa danneggiante[1], che può consistere in un qualunque bene (mobile o immobile, animato o inanimato, pericoloso o meno[2]);
  • Il danno derivante dalla cosa;
  • Il nesso di causalità tra detta cosa e danno verificatosi, il quale deve necessariamente essere diretto[3];
  • Il custode, ossia colui che abbia un potere di governo e di intervento sulla cosa[4], al quale risulta ex legeimputabile il danno cagionato dalla stessa;
  • La prova liberatoria, data dal caso fortuito, che consente al custode di andare esente da responsabilità[5].

Inoltre, trattandosi di un’ipotesi di responsabilità oggettiva[6], non è necessario che si accerti l’esistenza di alcun elemento soggettivo (dolo, colpa) in capo al custode, sicché questi sarà comunque chiamato a rispondere di tutte le cause di danno provocate dalla res – salvo il caso fortuito – ancorché a lui stesso ignote (c.d. rischio da custodia)[7].

Infine, quanto alla ripartizione dell’onere probatorio tra le parti in contesa, pare essenziale precisare che, conformemente ai principi generali in materia di responsabilità aquiliana[8], spetta al danneggiato dimostrare – inter alia[9] – la sussistenza della relazione causale tra cosa in custodia e danno cagionato. Viceversa, invece, si pone a carico del custode la deduzione in giudizio del caso fortuito, il quale – consistendo in un evento naturale o umano (fatto del terzo o del danneggiato) idoneo ad interrompere il nesso causale tra res e danno[10] – esime il custode stesso da responsabilità. Tale elemento liberatorio, dunque, deve essere valutato in considerazione delle circostanze di ciascun singolo caso concreto.

Il creditore chirografario

Il creditore chirografario

Che cosa significa “creditore chirografario”? Quali sono le differenze fra crediti chirografari e crediti privilegiati? Come si recupera un credito chirografario?

La presente trattazione intende rispondere in modo completo ai predetti interrogativi.

1. Chi è il creditore chirografario?

I creditori cosiddetti “chirografari” sono i creditori che non sono assistiti da cause di prelazione ed in quanto tali, concorrono tra di loro in condizione di eguaglianza (seppur con alcune precisazioni di cui si dirà di seguito).

 Nel dettaglio, la causa di prelazione, può definirsi come una deroga al principio della pari condizione dei creditori (par condicio creditorum) in forza della quale un creditore, c.d. “privilegiato”, viene preferito rispetto ad altri creditori (c.d. chirografari) nel soddisfacimento sui beni del debitore, come ad esempio, avviene nel riparto delle somme che si ricavano in sede di esecuzione forzata.

Sul punto, occorre partire da quanto previsto dall’ art. 2740 c.c. che esprime un principio di portata generica e, secondo il quale, il creditore ha uno specifico diritto sul patrimonio del debitore perché se il debitore non adempie alla propria obbligazione in modo spontaneo, il creditore, può farlo espropriare in via forzosa e quindi, anche contro la volontà del debitore. Infatti, l’ordinamento processuale del nostro paese, non si limita ad attribuire alla parte che ritiene di aver subito un torto (nel caso che qui interessa, il torto, è il mancato pagamento di un debito) il diritto ad ottenere un accertamento giudiziale, dal momento che il vero presidio di tutela del diritto di credito è rappresentato dal principio per il quale il diritto alla garanzia patrimoniale può essere azionato e soddisfatto anche contro la volontà del debitore.

In poche parole, si tratta dell’attuazione della garanzia patrimoniale come prevista dall’ art. 2910 del codice civile il quale esattamente, al primo comma, prevede che: “il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può fare espropriare i beni del debitore, secondo le regole stabilite dal codice di procedura civile”.

 Ciò vuol dire che chiunque venga riconosciuto come il creditore di un importo di danaro può far espropriare i beni del debitore perché i beni- e più in generale il suo patrimonio- del debitore sono la garanzia del soddisfacimento della ragione di credito.

 Del resto, nella lettura delle disposizioni codicistiche ausiliarie della tutela della garanzia patrimoniale è previsto:

  • all’ art 2905 c.c. il sequestro conservativo volto ad evitare la dispersione del patrimonio del debitore;
  • all’ art. 2900 c.c., volto ad evitare che il debitore, rimanendo inerte, pregiudichi il diritto del creditore anche sul patrimonio futuro;
  • all’ art. 2901 c.c., dall’azione revocatoria ordinaria che serve a reprimere le condotte del debitore che abbiano portato una diminuzione della garanzia patrimoniale.

L’ordinamento, quindi, pone a disposizione di tutti i creditori la possibilità di reagire all’inadempimento del comune debitore.

Può pertanto accadere che più creditori, vantino delle pretese nei confronti dello stesso debitore.

In un panorama giuridico del genere, soccorre la disposizione dell’art 2741 del codice civile che prevede, le c.d. “cause di prelazione” e secondo il quale i creditori hanno uguale diritto di essere soddisfatti sui beni del creditore salvo le cause legittime di prelazione che sono il privilegio (art. 2745 del c.c.), il pegno (art. 2784 del c.c.) e l’ipoteca (art. 2808 del c.c.).

Il creditore privilegiato non concorre con i chirografari, ma ha il diritto di far valere il suo credito sul bene oggetto di prelazione per l’intero.

Doveroso rammentare sul punto che i titoli di prelazione hanno delle caratteristiche comuni fra cui:

il diritto di sequela che si verifica quando il titolare di una causa di prelazione su un bene determinato può aggredirlo anche se il bene è passato in mano a terzi soggetti;

la surrogazione reale del creditore nelle ragioni che spettano al debitore sul beneche ad esempio si verifica sull’indennità dovuta dall’assicuratore per il perimento o deterioramento della cosa soggetta a privilegio, pegno ed ipoteca ex art. 1882 del c.c.;

la perdita del beneficio del termine eventualmente previsto a favore del debitore che si verifica nel caso cosa data in garanzia perisce o si deteriora in modo da risultare insufficiente a garantire il credito, in una situazione di questo tipo, il creditore privilegiato può chiedere idonea garanzia su altri beni oppure, in via subordinata, il pagamento immediato di quanto dovuto;

il pignoramento dei beni del debitore secondo quanto previsto dall’ articolo 2911 c.c. che avviene quando il creditore garantito da pegno, ipoteca e privilegio non può procedere su altri beni se prima non sottopone ad esecuzione il bene oggetto della garanzia

Quanto all’ intervento nel processo esecutivo dei creditori muniti di cause di prelazione, la normativa in materia (artt. 528, 2° comma cpc, art 551 cpc e 566 cpc.). prevede che questo tipo di creditori, non hanno una scansione temporale ben precisa purchè intervengano prima della formazione del progetto di distribuzione e possono intervenire anche dopo l’udienza di autorizzazione alla vendita, senza subire conseguenze negative.

Ci sono però anche dei limiti all’ efficacia delle cause di prelazione come disciplinato nel codice civile all’ all’articolo 2916 c.c. il quale prevede che nella distribuzione della somma ricavata dall’esecuzione non si tiene conto:

1) delle ipoteche, anche se giudiziali, iscritte dopo il pignoramento;

2) dei privilegi per la cui efficacia è necessaria l’iscrizione, se questa ha luogo dopo il pignoramento;

3) dei privilegi per crediti sorti dopo il pignoramento.

Pertanto, in ragione di detta previsione codicistica, eventuali cause di prelazione che sono state costituite dopo il pignoramento sono inefficaci nell’esecuzione.

In relazione ai creditori muniti di privilegio, in forza di questa disposizione, se il loro credito è sorto dopo il pignoramento, essi potranno intervenire nell’espropriazione, ma saranno trattati in sede di distribuzione del ricavato come se fossero creditori chirografari, cosicché in sede di distribuzione del ricavato può essere necessario accertare la data ( e che sia certa secondo la normativa in materia) nella quale è sorto il credito ed il creditore privilegiato; infatti, se sorgono delle contestazioni, sarà necessario fornire la prova che il suo credito è nato prima del pignoramento.

Degno di nota è anche il fatto che l’articolo 2916 c.c. non fa alcun riferimento al pegno, ma, per prassi, si può ritenere che anche i pegni devono essere stati costituiti prima del pignoramento per essere opponibili ai creditori concorrenti.

2. La normativa di riferimento

La responsabilità patrimoniale, le cause di prelazione e la conservazione della garanzia patrimoniale, cui naturalmente consegue la gradazione dei crediti in sede di distribuzione del ricavato trovano la sua disciplina nel codice Civile, Libro VI, Titolo III articoli 2741 e 2748 .Lo svolgimento del processo e dunque il modus operandi quanto alla distribuzione della somma ricavata, si trova invece nel codice di procedura civile, nel Libro III – del Processo di Esecuzione, all’ articolo 510 ed all’ articolo 596.

L’articolo 2741 comma 1 del codice civile stabilisce che le cause legittime di prelazione sono, i privilegi, il pegno e l’ipoteca.

Il creditore munito di una prelazione ha diritto di essere preferito in sede di distribuzione del ricavato.

Per i creditori muniti di cause di prelazione, non esiste una differenza tra intervento tempestivo e tardivo, questi creditori possono intervenire anche dopo l’udienza di autorizzazione alla vendita, senza subire conseguenze negative (ex artt. 528, comma 2, 551 e 566 c.p.c.).

Per tutelare i propri diritti, questi creditori devono intervenire entro il termine ultimo fissato dal legislatore o individuato dalla giurisprudenza per le singole forme di espropriazione.

L’art. 2748 invece prevede e risolve i conflitti fra i privilegi speciali ed i diritti di garanzia reale: pegno ed ipoteca.

L’articolo 510 del codice di procedura civile regola la distribuzione delle somme ricavate nell’espropriazione forzata secondo due ipotesi diverse:

  • Nel caso in cui c’è un unico creditore (primo comma)
  • Nel caso in cui ci sia una pluralità di creditori (secondo comma ed ovviamente, è l’ipotesi più complessa) rammentando che l’espropriazione forzata comporta, infatti, il concorso dei creditori, che si realizza mediante l’intervento nel processo esecutivo.

Infatti, nella non infrequente ipotesi in cui il patrimonio del debitore viene aggredito da uno dei creditori, per gli altri la partecipazione al concorso è necessaria, perché il creditore inerte perde definitivamente quella parte di garanzia che il bene, oggetto dell’esecuzione, prestava al suo credito.

Laddove il ricavato dalla vendita non sia sufficiente per l’adempimento delle obbligazioni del debitore, in sede di distribuzione alcuni creditori concorrenti non saranno soddisfatti, interamente o in parte, dovranno assistere alla soddisfazione degli altri creditori e vedranno svanire la garanzia dei loro crediti.

L’articolo 2741 del codice civile declama un “eguale diritto dei creditori di essere soddisfatti sui beni del debitore, salve le cause legittime di prelazione”.

Il legislatore però, sa bene che nella realtà del processo esecutivo il concorso paritario tra i creditori è regola che patisce diverse eccezioni, stante la diffusione delle cause di preferenza, ed il codice di procedura civile non fa nessun cenno all’uguaglianza tra i creditori, mentre, in diverse disposizioni, richiama le cause di prelazione.

In forza dell’articolo 510 comma 2 del codice di procedura civile, la somma ricavata dall’espropriazione è distribuita in relazione alle cause di prelazione.

L’articolo 596 del codice di procedura civile, in materia di espropriazione mobiliare, stabilisce che il giudice o, nel caso di delega, il professionista delegato alla vendita, “non più tardi di trenta giorni dal versamento del prezzo, provvede a formare un progetto di distribuzione contenente la graduazione dei creditori che vi partecipano, e lo deposita in cancelleria affinché possa essere consultato dai creditori e dal debitore, fissando l’udienza per la loro audizione”.

Il richiamo alle “cause di prelazione” e alla “graduazione” conferma che i creditori, nella concreta dinamica dell’espropriazione, subiscono trattamenti differenziati.

I creditori che non sono assistiti da cause di prelazione sono definiti «chirografari» e concorrono tra di loro in condizione di eguaglianza ma con alcune precisazioni.

Infatti, se un creditore chirografario interviene tardivamente nell’espropriazione egli subisce la cd. postergazione, ovvero viene soddisfatto dopo tutti gli altri creditori.

Il discrimine tra azioni tempestive e tardive è segnato dall’inizio dell’udienza nella quale il giudice dell’esecuzione autorizza la vendita dei beni pignorati.

Nell’espropriazione presso terzi, il creditore chirografario, subisce la postergazione se prende posizione dopo l’udienza nella quale il terzo rende la dichiarazione.

Nell’espropriazione mobiliare, dove il valore dei beni pignorati sia inferiore ad i ventimila euro il giudice dell’esecuzione fissa la vendita con decreto e la postergazione per i chirografari è determinata dal semplice deposito dell’istanza di vendita (ex art. 525, comma 2, c.p.c.).

Inoltre, l’uguaglianza tra i creditori chirografari cessa anche se il creditore procedente indica ai chirografari tempestivi l’esistenza di altri beni utilmente pignorabili, invitandoli ad estendere il pignoramento (nel caso in cui essi abbiano un titolo esecutivo) o devono anticipare le relative spese (nel caso in cui essi non abbiano un titolo esecutivo).

 In punto di credito chirografario, alla normativa civilistica e processualcivilistica si aggiunge la disciplina delle procedure concorsuali con specifico riferimento alla normativa fallimentare, R.D. 16 marzo 1942 n. 267, art 111 che classifica i diversi tipi di creditori e l’ordine di ripartizione.

Dettagliatamente, dopo che è stato accertato l’attivo fallimentare sarà necessario procedere alla sua ripartizione tra i creditori secondo tre categorie esatte di crediti che si distinguono in:

1. i crediti prededucibili;

2. i crediti garantiti in quanto assistiti da prelazione;

3. i crediti non garantiti, cioè chirografari.

Ciò vuol dire che le somme ricavate dalla liquidazione devono essere corrisposte nell’ ordine che segue:

1) per il pagamento dei crediti prededucibili (come previsto dal successivo art. 111 bis L.F.);

2) per il pagamento dei crediti ammessi con prelazione sulle cose vendute secondo l’ordine assegnato dalla legge (come previsto dall’ art. 111 quater L.F.);

3) per il pagamento dei creditori chirografari, in proporzione dell’ammontare del credito per cui ciascuno di essi fu ammesso, compresi i creditori privilegiati, qualora non sia stata ancora realizzata la garanzia, ovvero per la parte per cui rimasero non soddisfatti da questa.

Dalla predetta disposizione si ricava agevolmente che i creditori che avranno meno possibilità di essere soddisfatti sono i creditori chirografari (perché quando si arriva a tale grado ci sono meno soldi da distribuire) che infatti verranno ammessi in proporzione dell’ammontare del loro credito.

Ciò precisato, secondo l’art 111 in sede fallimentare, i primi ad essere soddisfatti sono i crediti prededucibili.

Per questi crediti, il predetto articolo chiarisce che sono tali quelli così definiti dalla legge e quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali, cioè tutte le procedure concorsuali previste dalla legge fallimentare.

Più dettagliatamente l’art. 111 L.F fa dunque riferimento a tre ipotesi:

  • i crediti definiti prededucibili dalla legge, e quelli sorti occasione o in funzione delle procedure concorsuali;
  • i crediti sorti in funzione delle procedure concorsuali sono quelli sorti perché frutto di attività consapevole degli organi della procedura,
  • I crediti sorti in occasione della procedura si riferiscono ad ipotesi in cui non c’è stata una specifica volontà degli organi della procedura, come nel caso in cui sorgano dei crediti di carattere risarcitorio a carico del fallimento.

I crediti prededucibili non sono sottratti alla procedura di accertamento del passivo, perché anche questi, ai sensi dell’art. 111 bis, comma 1, ne sono assoggettati, cosicchè possono anche essere tempestivi e tardivi, con l’applicazione della relativa disciplina.

Fermo restando che è il medesimo art 111 bis l.f. a porre due eccezioni a questa regola stabilendo che non sono sottoposti alla normale procedura di ammissione al passivo:

1) i crediti che non sono contestati per collocazione ed ammontare, anche se sorti durante l’esercizio provvisorio;

2) i crediti sorti a seguito di provvedimenti di liquidazione di compensi dei soggetti di cui il curatore abbia richiesto l’assistenza (art. 25 L.F. primo e sesto comma).

Dettagliatamente, per i crediti non contestati per collocazione ed ammontare, particolare importanza assumono quelli che sorgono durante il fallimento, in merito, però, alla loro liquidazione che, infatti, possono essere soddisfatti al di fuori del procedimento di riparto, ma solo se si presume che l’attivo sia sufficiente a soddisfare tutti i titolari di tali crediti, fermo restando che per il pagamento è poi necessaria l’autorizzazione del comitato dei creditori o del giudice delegato

Invece, per i crediti sorti a seguito di provvedimenti di liquidazione di compensi dei soggetti di cui il curatore abbia richiesto l’assistenza, è agevole ricavare che mancando la contestazione, sono senz’altro ammessi al passivo, ma se la contestazione vi è stata, l’ammissione al passivo potrà avvenire con il diverso procedimento del reclamo contro il decreto del giudice delegato che liquida il compenso a detti soggetti come previsto dall’ art. 26, stessa legge fallimentare, ed all’ esito del reclamo si accerteranno tali crediti e il loro diritto di essere ammessi o no al passivo.

Pertanto, l’erogazione delle somme sarà come segue:

1. ai crediti ipotecari e pignoratizi, in ordine alla liquidazione dei beni oggetto della garanzia;

2. ai crediti prededucibili;

3. agli altri creditori che hanno titolo di prelazione;

4. ai creditori chirografari.

3. Le interferenze tra legge fallimentare e disciplina codicistica

Per quanto dedotto nei precedenti paragrafi è agevole ricavare che la soddisfazione del diritto di credito vede fondersi le norme civilistiche e processualcivilistiche con quelle fallimentari.

Giusto tener presente la giurisprudenza che ha affrontato la materia, secondo indirizzi che possono ritenersi consolidati in cui si può prendere atto che sono applicabili gli artt. da 570 a 575 c.p.c. in tema di vendita senza incanto, nonché gli artt. 576, 580, comma 2, 585, comma 2 (Trib. Roma 9 giugno 1999, n. 301), 586 (Cass. 25 luglio 2002, n. 10909, in riferimento alle alle spese di cancellazione) e 587 (Cass. 6 settembre 2006, n. 19142) nel caso di vendita con incanto.

Nel dettaglio, in riferimento all’applicabilità dell’art. 586 c.p.c., la Corte di  Cassazione ha ammesso che, “ pur non rappresentando quello dettato dalla disposizione in ordine al riparto delle spese un principio inderogabile e non avendo esso ad oggetto situazioni soggettive indisponibili, il giudice delegato al fallimento ben può, con il proprio provvedimento, porre le spese di cancellazione delle trascrizioni o iscrizioni gravanti sull’immobile trasferito a carico dell’aggiudicatario” (Cass. 25 luglio 2002, n. 10909).

In riferimento invece, all’espropriazione di beni indivisi, l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario ha ritenuto applicabile sia l’art. 600 c.p.c. (Trib. Genova 17 aprile 1997, ivi, 1997, 1231), che l’art. 601 c.p.c. (Trib. Napoli 25 giugno 2002, in Giur. comm., 2004, II, 240).

Infine, sono state ritenute applicabili alle vendite fallimentari anche le disposizioni di cui agli artt. 532 e 533 c.p.c. che disciplinano la vendita a mezzo commissionario, ciò in forza del richiamo dell’art. 107 l. fall., primo comma, ai “soggetti specializzati” (sul punto, Trib. Roma 18 aprile 1998, in Giur. mer., 2000, 353).

Al contrario, la giurisprudenza, ha invece escluso nel fallimento l’applicabilità degli artt. 615 e 617 c.p.c., ritenendo che i provvedimenti adottati in sede fallimentare sono reclamabili ai sensi dell’art. 26 l.fall. (in tal senso anche Cass.civ 23 settembre 2002, n. 13825, ivi. 2003, 837). Ciò vuol dire, che in caso di previa non proposizione del reclamo ex art. 26 l.fall., non sarà ammissibile il ricorso per cassazione proposto direttamente avverso il decreto di trasferimento del bene immobile (in tal senso, Cass. Civile 22 gennaio 2009, n. 1610, in Mass. Giust. civ., 2009, 1, 98).

Contrastata invece è l’applicabilità del potere del giudice delegato di sospendere la vendita ex art. 586 c.p.c. Sul punto l’indirizzo prevalente della giurisprudenza (Cass. 23 febbraio 2010, n. 4344, in Mass. Giust. civ., 2010, 2, 261; Cass. 16 aprile 2007, n. 23799, in Mass. Giust. civ., 2007, 11) ha ritenuto inapplicabile la disposizione, in ragione dell’esistenza della disciplina speciale dettata dall’art. 108 l.fall., secondo cui il giudice può esercitare il suddetto potere, non solo quando ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto, ma anche a fronte di gravi e giustificati motivi.